Intervista a Gigi Proietti

Esordio nel 1963, a pochi giorni dal Natale, all’Arlecchino – “proprietario, Aldo Fabrizi” – nel Can can degli italiani immaginato dal suo primo mèntoreGiancarlo Cobelli: “Cabaret puro, quando il genere era ignoto e il derby di Milano era solo una partita di calcio”. Con gli attualissimi aforismi di Flaiano messi in musica: “O come è bello sentirsi profondamente intelligenti/ per il sesso sdilinquirsi/ per la donna restare indifferenti/ rispondere a ogni inchiesta/ avere sempre un’opinione/ sottoscrivere una protesta/ spiegare la situazione” e la memoria selettiva, ma refrattaria all’autocelebrazione. Poche parole. Un princìpio di minimizzazione: “A Cobelli serviva un versatile e scelse me”. Fosse stato per Gigiaccio (“era Fellini a chiamarmi così”), forse l’esistenza avrebbe raccontato le sue pagine migliori in un night. Con il microfono in mano conobbe Sagitta Alter, svedese, accompagnatrice turistica che a 16 anni lo vide esibirsi ai bordi delle piscine del Foro Italico: “Ma che me fate ricordà”. E con il microfono sarebbe rimasto, se il teatro non l’avesse rapito e conquistato per diritto naturale. “All’Università studiavo Giurisprudenza, a casa non avevo la tv e il teatro non sapevo neanche cosa fosse. Al ginnasio, con un improbabile tutù, avevamo portato in scena Il lago dei cigni”.
In tutù?
Cortissimo, legato con uno spago, una cosa tremenda. Frequentavo il liceo Augusto, sulla Tuscolana e vivevo in periferia, al Tufello. Quando a mio padre assegnarono il lotto delle case popolari, improvvisò una danza. Sembrava avessimo vinto al Totocalcio.
Ricordi?
Il quartiere non era ancora finito, ma c’era la parrocchia. Fondamentale. Magari te rubbava l’anima, ma ti restituiva una formazione oggi impensabile. Al Tufello sono tornato recentemente. È rimasto identico, ma è quel periodo a sembrarmi lontanissimo. Roma la conoscevo bene. Oggi è un altro mondo e la periferia contemporanea è indefinibile. Più cattiva, rarefatta, inafferrabile.
Reminiscenze familiari?
Romano e Giovanna, i miei genitori, erano persone semplici e a casa i soldi erano pochi. Mamma che mi consiglia di fare il giro largo per andare dal fornaio in cui non ti chiedono la tessera del pane, non me la sono più dimenticata.
Che anni erano?
Venivamo dalla guerra, ma riuscivamo a trasformare le ristrettezze in ironia. Mal comune, mezzo gaudio. Papà Romano era burbero, ma spiritoso. Dopo aver fatto il cameriere e il portiere di uno stabile, si era riciclato come uomo di fiducia e tuttofare per le aziende carbonifere italiane. Portava carichi di scarpe ai minatori col camion, una cosa pericolosa. Si sbatteva senza lamentarsi. Nell’umiltà di fondo, colorava le sue storie di un avventuroso tono salgariano.
L’avrebbe voluta laureato.
Una bandiera sul percorso della realizzazione sociale. Mi sognava sistemato, con un compenso sicuro, magari modesto: “Saranno pochi, ma è una goccia che cade tutti i mesi”. Poi andavo a cantare e in una sera, esibendomi, guadagnavo più di quanto papà non riuscisse a mettere insieme in un mese. La laurea lasciò rapidamente il posto ad altre considerazioni.
Vita d’artista.
Ero nato in Via di Sant’Eligio, una traversa di Via Giulia, la stessa strada in cui si era sposato Fregoli, ma l’idea di interpretare delle maschere, da ragazzo, non mi aveva mai sfiorato.
E nell’adolescenza?
Neanche. Suonavamo e tanto ci bastava. Per il gruppo, democraticamente, scegliemmo un nome sobrio: “Gigi e i soliti ignoti” poi mutuato ne “I ricachas”. Il resto era un girovagare confuso nei locali romani da Via Crispi alla Taverna Margutta. Uscivi da certe serate con gli occhi di fuori, la voce roca, il collo gonfio e la speranza che il trombettista ti desse il cambio almeno per qualche minuto. In quel periodo Giancarlo Co-belli, che aveva insegnato mimo al centro universitario teatrale da me frequentato, mi chiamò. Aveva bisogno di un attore che sapesse cantare e suonare. Allora era raro trovare qualcuno che sapesse fare entrambe le cose.
E il resto è storia.
Dite? Mi sembra di aver fatto di tutto. ‘na specie de ‘ndo cojo, cojo. Il teatro alto e quello dialettale, la sperimentazione e la contaminazione, il cinema e la tv. Persino un Sandokan televisivo con quel fenomeno di Gregoretti. Mi sono divertito molto, questo sì. Can can degli italiani, lo spettacolo con il quale debuttai, era raffinatissimo: i testi di Vollaro, Arbasino e Flaiano. Vi ricordate la sua battuta sul Louvre? Gli chiedono pensosi quale opera salverebbe se il museo bruciasse e lui, senza neanche riflettere: “Quella più vicina all’uscita”.
Lo ha conosciuto?
All’epoca in cui era il critico teatrale di Tempo illustrato e provocava Franco Zeffirelli alle prese con Shakespeare. “Scespirelli”, lo chiamava. Lo contattammo all’ultimo istante per Can can degli italiani. “Hai qualcosa di pronto?”. “Niente, se si escludono pochi epigrammi, ma sarebbero da musicare e voi avete le ore contate”. Presi Gli intelligenti e petto a terra, mi misi all’opera. Lo musicai in mezz’ora. Can can fu la mia “pietra emiliana”, come disse un grande produttore a una diva (ride).
Compagni di strada indimenticabili?
Certi fratelli illegittimi purtroppo se ne sono andati. Con Vittorio Gassman e Carmelo Bene passammo serate memorabili. Ci ritrovammo all’Aquila. Eravamo una setta dedita alle libagioni. Dopo una settimana, in giro, non si trovava più un goccio di vino.
Bene era straordinario?
Sì, assolutamente. In molti si rifanno a lui, ma non lo conoscono. Se osavi parlargli di sperimentazione, non discuteva. Ti dava direttamente una bastonata. Era venuto a Roma per fare il tenore, ma scoprì che non era il caso. Esagerare era parte della sua cultura barocca, del suo poetico girovagare, di un’estrazione levantina. Mi ricordo che voleva mettere in scena una pièce su San Giuseppe da Copertino, il santo che volava grazie alla sua idiozia o se preferite, alla sua ingenuità. Una volta a cena all’ennesima citazione da Schopenhauer gli chiesi: “Ma a che pagina lo dice esattamente?”. Ridemmo. Spesso quelle “citazioni” non erano che sue intuizioni forti e sublimi. Ma, giovanotti, mi accorgo di una cosa.
Quale?
Io parlo, parlo, ma poi c’entreranno tutte ‘ste chiacchiere nel giornale? Vabbè, scriverò un libro soprattutto per la mia memoria e non mi illudo possa essere collettiva. Potrei raccontare per 50 anni. È un mestiere senza fondo il mio.
Si è piaciuto?
Più dopo che prima. Sono stato di una precisione ossessiva. Gassman mi prendeva in giro: “Sei maniacale”. Studiavo i fiati ispirandomi a Charlie Parker, facevo interminabili sessioni di dizione. Riascoltandomi, nel perfezionismo eccessivo, non mi sono riconosciuto. Mi sono stato antipatico da solo.
Proietti, proprio lei? Così romano eppure esperto di dizione?
Passo per un romanoide. Un equivoco. Il dialetto l’ho scoperto tardi. Nella Tosca di Gigi Magni, ad esempio, lavorai con Fabrizi. Io facevo Cavaradossi, Aldo invece un personaggio che nell’originale neanche esisteva: il Cardinale Governatore di Roma. Cominciava dicendo: “Padre eterno, padre eterno/ ‘sto quattordici de giugno/ gira l’occhi da ‘sta parte/ fai che oggi Bonaparte/ a Marengo sbatta er grugno”.
Non male.
I dialoghi della Tosca sono un capolavoro assoluto. Feroci, esilaranti, eversivi: “Hai fatto er cielo/ hai fatto er mare/ quanno te pare sai fa pe’ tre/ a fa’ la terra c’hai indovinato/ chi cià azzeccato mejo de te?/ Hai fatto bene tutto er creato/ te sei sbajato solo con me”. A Dio, per dire, ci si rivolgeva così. Quando entrano i derelitti, mi si avvicina una suorina deforme. Parliamo: “Dove andate sorella?”. Quella, pronta, biascicando: “A ringrazia’ il Signore” e un altro, dietro: “Pure!”.
Il tempo comico è tutto?
Quando lavorai col grande Peppino De Filippo ne La bottega del caffè al Lirico di Milano, mi accorsi per la prima volta che la risata non è solo improvvisazione. È un sistema. Come nell’antica scuola del teatro popolare, i tempi dello sketch erano studiati sacralmente.
Come andò?
Peppino, durante le prove, prima di pronunciare una battuta, toccò un balconcino con un bastone. Poi venne avanti in silenzio verso la platea e la declamò. Tutti i presenti, attori e tecnici, risero. Lui chiese una pausa: io lo spiai e mi accorsi che, nel percorso dal balconcino al centro della scena, aveva contato mentalmente fino a otto.
Aveva studiato i tempi?
Aveva “fissato” la battuta, trattandola alla stregua di un tempo musicale. Poi l’esperienza mi ha insegnato un’altra cosa. Una frase che normalmente fa ridere e a un certo punto, per ragioni imperscrutabili, non fa più scattare la risata, per l’attore diventa un serio problema. Non ci dormi la notte, almeno fino a quando il pubblico non ride di nuovo. A volte passano giorni angosciosi.
Che altro le insegnò De Filippo?
Non dimenticare chi è venuto prima di noi è essenziale: ricordatevelo, giovinetti… Peppino poi era adorabile. Osservare lui e Fabrizi è stato un privilegio. Un giorno sul set di Tosca Gigi Magni si appropinqua complice e mi fa: “Oggi Aldo ce regala la botta”. Era eccitato.
Cos’era la botta?
Spiegarlo è dura. Lui faceva un’espressione con la faccia che ti commuoveva. Strabuzzava gli occhi, muoveva il volto, torceva i lineamenti. Si dirigeva da solo: “Silenzio, motore, ciak, azione”. Faceva girare un certo numero di scene e poi al direttore della fotografia, prima di smettere, faceva un cenno: “Stampi la quarta e la sesta”. E sicuramente quelle scelta da Fabrizi facevano piagne.
E Fellini?
Imprevedibile. Veniva a vedermi, guardava un pezzo di spettacolo, magari tornava il giorno dopo. Se non avesse trovato i fondi per “La città delle donne”, lo avremmo fatto al teatro tenda. Me lo propose lui, io ero tramortito: “Magari…”.
Poi il film lo fece.
Ma continuò a raccontarmi cose meravigliose. Sordi aveva un numero fisso che portava nel-l’avanspettacolo romano. L’aereo, la mucca e la gallina, che si trasformò poi nel suo primo provino al cinema. Una roba astratta, pericolosa, che in certi posti rischiava di farti tornare a casa con cicatrici non solo metaforiche. La platea non era composta da educande. Dicevi: “Vi farò la mucca” e addosso, dal pubblico, come Fellini mostrò in Roma, ti arrivava di tutto. Non sapevo, me lo rivelò proprio Sordi, che quel pezzo comico era stato esportato da lui stesso in America, ben prima di interpretare Un americano a Roma e Lo sceicco bianco. Quando urlava “the cow” e poi faceva: “Muuuu” oppure “The chicken” per proseguire il “co-co-coccodè”, veniva giù la sala. L’impresario locale voleva assoldarlo per un giro itinerante negli States solo per quel numero. Non se ne fece nulla. Quando Sordì inventò Nando Mericoni detto l’amerecano, quel personaggio era già dentro di noi.
In che senso?
Venivamo dalla Liberazione, eravamo malati di americanismo e Sordì captò questa mania. Non fece altro che riportare sullo schermo, in forma poetica, molte frasi prese dalla strada che grazie a lui divennero immortali trasformandosi in lessico giovanile. “Ammazza la vecchia”, “Ammazza che zozzeria”. “C’è un uomo nudo int’a ‘sta casa”. Parlavamo tutti così, storpiando gli accenti, in un grammelot “amerecano” da perenni colonizzati.
Il primo lampo di Sordi che le viene in mente?
In un film introvabile, Ci troviamo in galleria di Bolognini con Dapporto e Nilla Pizzi. Sordi fa una parte minuscola, al telefono. “Pronto casa Paizza?”. “Cò la ricotta e cò la pizza”. Una cosa semplice. Tecnicamente, si chiama tormentone. Esilarante. Per noi Sordi era una specie di divinità. Il successo di Sordi nacque con Steno, il padre dei fratelli Vanzina, con cui lei lavorò in Febbre da cavallo. Steno aveva una mano lievissima. Era un grande regista che ha fatto un cinema leggero e che come altri uomini intelligenti da Monicelli a Corbucci, sapeva che c’erano attori che andavano lasciati fare. Gente a cui non puoi dire come recitare una scena. Corbucci con il principe De Curtis aveva girato sette film: mi raccontava che in Totò Peppino e la malafemmina Mastrocinque, il regista, aveva lasciato che i due si autogestissero. Nella scena della famosa lettera, Totò e Peppino andarono avanti a improvvisare per tre quarti d’ora. Animali incredibili. Straordinari.
Lei, Proietti, ha una memoria di ferro.
Non è che ricordi tutto, ne ho fatte così tante che per far bella figura basta tirarne fuori qualcuna. Forse alla buona memoria sugli episodi singoli, contribuisce il non essere precipitato nella gabbia dell’attività istituzionale. Se ti metti dentro un teatro stabile, c’è il rischio che diventi immobile.
Si sente di rappresentare qualcosa o qualcuno?
Ho fatto lo slalom, rappresento tante anime. O forse non rappresento un cazzo, non lo so. Però sono curioso (non sono stato, mi raccomando, quella è roba da lapide) e ridere mi piace. Potrei esserti amico in un minuto, ma se nun sai ride mi allontano. Chi non sa ride, mi insospettisce.
Ma ha lavorato con Altman, Lumet, Tavernier.
Qualcuno ha anche scommesso su di me, penso a Citti con Casotto, ma non bastò. Allora non ho insistito, ma non è che non mi sia dispiaciuto, anzi. Adesso forse è troppo tardi e non lo dico con lo stesso tono della volpe che non può arrivare all’uva, ma per me onestamente il cinema non ha lo stesso fascino e il mistero che aveva un tempo. Oggi anche un bambino può girare un’opera con un telefonino. Ho fatto tanti film, ma non ho fatto il cinema.
Rapporti con la critica?
C’era uno di Repubblica che mi stroncava regolarmente e, se non accadeva, mi stupivo. Ho protestato un paio di volte con altri, invece, ma non per me. Uno aveva detto cose orrende sulla mia compagnia. Scrisse che un’attrice si muoveva come un ippopotamo. Mi incazzai, incontrai il giornalista nel foyer dell’Argentina, je volevo mena’. Poi m’hanno calmato.

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