Intervista a GIORGIO ALBERTAZZI

A Firenze il 9 maggio festeggeranno i suoi novant’anni. Ma a dispetto del tempo, Giorgio Albertazzi ha un’agenda assai fitta di impegni, vitalità ed estro sono sempre al servizio di un’idea o di un progetto.

 

Nel camerino del Teatro Parioli di Roma si appresta alla 763esima replica di Memorie di Adriano, tratto dall’omonimo romanzo di Marguerite Yourcenar, regia di Maurizio Scaparro. Dopo la prima trionfale rappresentazione a Villa Adriana nel 1989, lo spettacolo ha vissuto negli anni molte riprese anche all’estero.

 

Scrittore che recita, per sua stessa definizione, Albertazzi è intellettuale inquieto e controcorrente che si misura con la recitazione, la scrittura, la regia teatrale, cinematografica e televisiva e ricopre un ruolo di primissimo piano nella storia del teatro italiano del secondo Novecento.

 

Albertazzi ama spiazzare di continuo lo spettatore e si spende in spettacoli spesso diseguali ma mai scontati. Incarna, là sul palcoscenico, tutte le nostre contraddizioni.

 

«I miei maestri? Ricordo soprattutto la mia professoressa di Italiano alle medie, Cinnita. Una donna meravigliosa, mi ha fatto conoscere Dante e la poesia. E poi Athos Ori, regista della Compagnia Filodrammatica Fiorentina presso la quale ho debuttato e che io considero il mio solo maestro di teatro.»

 

E Luchino Visconti?

 

«Visconti fu per me un modello nella vita: mi ha insegnato a vestire, a mangiare… Orazio Costa, lui sì fu un grande maestro, abbiamo fatto bei spettacoli insieme. Quanto al resto, si sa: i professori insegnano ciò che sanno, i maestri ciò che non sanno; cercano e imparano con te.»

 

Interpretazioni da salvare?

 

«Se mi guardo indietro non provo grandi compiacimenti. Rimpiango solo la mia bellezza fisica…Salverei Amleto con Anna Proclemer, naturalmente: un nevrotico senz’ombra di malinconia in maglione a collo alto e chioma ossigenata. E questo Adriano della Yourcenar… Shakespeariana con Bianca Toccafondi, un’attrice straordinaria, una donna di garbo… Enrico IV di Pirandello: fu la prima volta che cominciai a recitare me stesso.»

 

Cosa detesta del teatro?

 

«Il teatro del regista signore del regno e l’estetica che chiamo “del vasino”, quella fatta di buoni sentimenti: la mamma, la famiglia… Ma soprattutto detesto la categoria dei bravi attori, quelli sempre precisi, sempre intonati, sempre uguali a se stessi col loro bel costume: si sente che vengono dal camerino anziché dagli spazi remoti della memoria… e che lì finiranno inevitabilmente per tornare.»

 

Tra mezz’ora in scena, Maestro…

 

Albertazzi si prepara, indossa la tunica bianca di Adriano. Racconterà anche stasera attraverso le parole di un altro la sua personale parabola d’attore e di uomo, come chi osservi se stesso dall’esterno. La sua meditata prova toccherà le corde interiori più autentiche e sofferte; il linguaggio motivato sul piano etico, emotivo e poetico si affiderà ad una dizione asciutta, per nulla compiaciuta. Come l’imperatore, l’ intuitivo carismatico aereo Albertazzi ci consegnerà il suo testamento spirituale senza retorica e senza recriminazioni, prima di entrare nella morte “ad occhi aperti”. Perché -c’è da credergli- la bellezza salverà il mondo.

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